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trimoni endogamici
[51]
, a sposarsi fra cugini, era un valido modo per per-
petuare non solo usi, tradizioni, costumi, ma era pure occasione per in-
trattenere e riaffermare, con il legame di parentela, una fitta rete di rap-
porti personali e familiari che evidenziavano e confermavano qualità e
valori tipici di quel popolo e della sua storia.
Dato lo spazio circoscritto del Ghetto, le porte delle abitazioni si apriva-
no una vicino all’altra, nelle vie della zona loro riservata. Spesso le fami-
glie di nuova costituzione abitavano in una parte della casa dei genitori,
con la quale mantenevano rapporti di frequentazione attraverso un siste-
ma di collegamento tra i vari edifici, costituito da passaggi, ballatoi, por-
te segrete. L’architettura, infatti, che ancora oggi è leggibile nella zona
del Ghetto di Ferrara, è costituita “
di scale rampanti, di cortiletti ridotti a
piccoli cavedio, di colatoi di luce, di occupazione dei sottotetti, di vicoli a
cul de sac, di cornicioni e balconcini, logge e pianerottoli
”
[52]
, che testi-
moniano la solidarietà di questo gruppo e nel contempo un “
bisogno di
decoro quale contestazione alla negata libertà, un anelito di luce e di so-
le di cui le case del ghetto erano carenti, a causa della mancanza di spa-
zio e delle vie anguste
” (Cerini, 1972)
[53]
.
La vocazione commerciale del gruppo ebraico, era attestata nel ghetto,
da un succedersi di botteghe negli edifici prospicienti soprattutto la Via
Sabbioni. Infatti nel complesso dei fabbricati ex-Pisa “
erano presenti 12
rivendite, delle quali 9 sulla via dei Sabbioni, 3 sulla via Vittoria e 2 ma-
gazzini sulla via Vignatagliata
” (Zanardi, 1994)
[54]
.
Erano botteghe di rigattieri, di robivecchi, di tessuti, caffè, negozi di piz-
zicagnoli, uno dei quali, gestito da Nuta Ascoli, divenne famoso nei pri-
mi anni del ‘900 per le specialità ebraiche come i buricchi ferraresi, il ca-
viale di storione del Po, i salami d’oca e kasher, fatti cioè con carni di
animali macellati secondo il rituale ebraico
[55]
.
I contatti assidui tra l’enclave ebraica e la comunità cristiana, generarono
ulteriore riprova dell’esito dinamico e non statico della struttura del ghet-
to, una considerevole influenza sulla parlata locale. Per effetto dell’utiliz-
zazione di termini ebraici associati a parole ferraresi, il dialetto proprio
del luogo venne modificandosi col conio di “
metafore dal doppio senso
fisiologico-furbesco, di una serie di proposizioni dal taglio malizioso…
che rivelavano nella sottile ironia la natura cosmopolitica di un linguag-
gio convenzionale che non disdegnava le metatesi di trastullo… e che
Max Ascoli e Ferrara
Il Ghetto