L’alfabeto ebraico è formato da 22 lettere e la sequenza letteraria è
sostanzialmente identica nominalmente a quella dell’alfabeto greco:
le lettere ebraiche Alef, Beth, Ghimel, Dalet e così via, in greco, sono
diventate Alfa, Beta, Gamma, Delta eccetera.
Ma l’alfabeto ebraico è composto soltanto da consonanti, le vocali
sono state aggiunte per semplificazione di lettura solo successiva-
mente. Ed è proprio questa caratteristica che ha reso possibile, e forse
fatto nascere, l’arte del
midrash
, del commento e dell’esegesi biblica
ebraica. L’assenza di vocali permetteva di assegnare ad una sola radice
consonantica una quantità di significati. L’esempio più semplice in
italiano potrebbe essere questo: se anche noi avessimo esclusiva-
mente le consonanti e trovassimo scritto CS, questa coppia di lettere
potrebbe significare CoSa, ma anche CaSa oppure CaSo e persino
CoSì.
Gli antichi Maestri hanno conferito alle lettere dell’alfabeto ebraico
una forza potentissima: nella concezione mistica le ritengono eterne,
preesistenti alla Creazione e indistruttibili. Ma come abbiamo visto,
non sono solo i maestri di mistica che attribuiscono a ogni singola let-
tera un suo proprio significato ben superiore a quello del segno gra-
fico: anche i Rabbini del Talmud usano spesso questo metodo per
dare un senso più profondo a una certa parola.
Inoltre ad ogni lettera è collegato un numero e da quest’altra peculia-
rità nasce un’ulteriore scienza interpretativa, la
ghematrià
, che asse-
gna ad ogni parola un valore numerico uguale alla somma dei numeri
attribuiti ad ogni lettera che la compone. Un piccolo gioco di anti-
chissima data per esemplificare: alla parola
hai
, vita, corrisponde il
numero 18 che è perciò considerato un numero fortunato. Alla parola
Adam
, Adamo, ma anche uomo, è attribuito il valore 45, e alla parola
Havà
, Eva, ma anche donna, è attribuito il numero 54 (tra l’altro 45 e
54 sono numeri speculari), la cui somma dà 99 e nove più nove, a sua
volta, dà 18. E se mai i Saggi avessero avuto bisogno di conferme,
l’unione di uomo e donna dà la vita.
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Grammatica ebrea spiegata in lingua italiana
composta da Simon Calimani rabbino veneto
,
Venezia, 1751
Roma, Centro Bibliografico Tullia zevi dell’unione
delle Comunità Ebraiche Italiane, fondo Ferrara,
n. 96, frontespizio e p. 1
Traduzione italiana dell’opera
Kelale Dikduke Leshon ‘Eber,
grammatica
ebraica originariamente inserita alla fine di una Bibbia pubblicata a Venezia
nel 1751 e a Pisa nel 1815.
Pietro, Alvise e lorenzo Bragadin,
Hagadà pasquale
, Venezia, 1609
Milano, Collezione privata
Questa
Hagadà
venne commissionata da Moses ben Gershon Parenzo alla stamperia veneziana
di Pietro, Alvise e Lorenzo Bragadin. È curioso notare che nelle due colonne a lato della pagina
vi sono didascalie, commenti e spiegazioni scritte in veneto e traslitterate in ebraico.
Pesach
, la Pasqua ebraica, è la festività più celebrata e sentita dagli
ebrei, in tutto il mondo. E lo è, forse, per la sua connotazione pro-
priamente famigliare: tutto avviene intorno alla tavola imbandita,
spesso così lunga che si smontano salotti e sale da pranzo per acco-
gliere ad un unico desco tutti i componenti della famiglia, allargata il
più possibile. Inoltre, sono principalmente i bimbi e gli anziani a
esserne i protagonisti. È il bambino più piccino che introduce, dopo
il
Kiddush
, la serata, ponendo quattro domande, che sottolineano,
ognuna, la diversità di questo pasto, che termina soltanto alle ore pic-
cole della notte. È sempre a lui a cui viene affidata l’
afikomen
, la metà
dell’azzima che rappresenta il sacrificio pasquale, con la quale si con-
clude la cena. È tradizione che il piccino nasconda il pezzo di azzima
e che tutti gli altri tentino di rubargliela: un modo per tener svegli e
attenti i ragazzini, altrimenti distratti e annoiati.
La persona più anziana, normalmente il capofamiglia, replica alle
domande del bambino con una risposta che dura tutta la sera. E
comincia così: «Schiavi noi fummo in terra d’Egitto.» E quel “
NOI
fummo” è l’altra caratteristica della serata: l’uscita degli ebrei
dall’Egitto che li rende popolo unito e libero non è cosa confinata a
gente estranea di 3000 anni fa. L’uscita degli ebrei dall’Egitto è
un’esperienza assai personale e attuale, che riguarda ogni ebreo sin-
golarmente. La lunghissima serata è scandita dalla lettura, e qui tutti i
commensali sono coinvolti, della
Hagadà
, che, dopo la Bibbia, è il
libro ebraico più pubblicato in tutti i tempi, dai più antichi ad oggi.
Nelle
Hagadòt
si è sbizzarrita la creatività degli artisti e dei commen-
tatori. Ogni ebreo ha la sua prediletta, un pezzo pregiato di famiglia o
quella, ormai sfasciata, dei suoi tempi di scuola. Tutte invariabil-
mente, anche le più preziose, sono macchiate di vino e di
harosed
, e
hanno, fra le pagine ingiallite, decenni di piccole briciole di
mazzà
, il
pane dell’afflizione che si mangia negli otto giorni successivi.
L’arte dello scrivere
«Perchè questa sera è così diversa dalle altre sere?»: quattro domande e una risposta