a Micòl (e al pubblico), che Giorgio, il futuro autore de
Il
Giardino dei Finzi-Contini
, si era salvato. Ma lui, intanto, il
futuro romanziere di successo, il futuro patetico narratore dei
propri amori adolescenti con la bionda Micól Finzi-Contini, che
figura ci stava facendo? Tagliando la corda, è già rassegnatosi fin
d’allora a impastare il proprio inchiostro di scrittore con le ceneri
del babbo, non stava facendo per caso la figura del porco?»
L’azione giudiziaria di Bassani, solo per farsi estromettere dalla
firma della sceneggiatura (e non per chiedere risarcimenti in
denaro), è davvero comprensibile.
Soprattutto dopo sette estenuanti anni di incomprensioni. Perché
ricordiamo, oltre che grande scrittore, oltre che straordinario
esperto di drammaturgia teatrale, Bassani andava rispettato pure
come affermato sceneggiatore; anche se nel ‘70 aveva rotto da
quindici anni con il mondo cinematografico, esattamente dal
1955 quando assieme a Pier Paolo Pasolini e Florestano Vancini,
dal soggetto di Alberto Moravia e di Ennio Flaiano, scrisse, per
la regia di Mario Soldati,
La donna del fiume.
Questo conflitto, a più di quarant’anni di distanza, va visto come
un problema antico della purezza del lavoro letterario che si
svolge in solitudine sulla propria pelle, in conflitto con il mondo
del cinema, così impelagato per sua natura, per gli alti costi di
produzione, con gli obiettivi di mercato, con il coinvolgimento
di numerose maestranze, opinioni, interessi.
Dobbiamo pensare che la “macchina del cinema” ha sempre
posto in sudditanza gli stessi grandi registi. Non a caso perfino
Antonioni, anche all’apice della sua fama mondiale, ha dichiarato
più volte che non ha mai girato un solo film sentendosi comple-
tamente libero dall’autorità e dall’influenza dei produttori.
Si trattò anche banalmente di un conflitto di poetiche: possono
due mostri sacri, due grandi maestri come Bassani e De Sica
fondersi, come provenienti dalla stessa esperienza artistica, cul-
turale, intellettuale, psicologica, mentre invece provenivano da
mondi completamente diversi?
A quarant’anni da questo film però possiamo e dobbiamo dire
che
Il giardino dei Finzi-Contini
di De Sica, non ha fatto del
male al grande romanzo di Bassani. Anzi si è verificato un cir-
colo virtuoso per cui il film ha comunque nutrito il romanzo,
come una specie di affresco delle emozioni contenute nel libro,
un dipinto astratto, visionario, dai segni decisi, che ritrae con
nitidezza i personaggi e l’atmosfera di un’epoca.
Gli stessi errori cinematografici, le stesse ovvie omissioni della
riduzione cinematografica, i naturali vuoti della trasposizione
(che rimane dichiaratamente “riduzione” anche nei titoli di testa:
“liberamente ispirato dal romanzo di Giorgio Bassani”) condu-
cono il pubblico più curioso alla volontà di scoprire gli angoli
più segreti e profondi degli sterminati
Giardini
che ovviamente
solo leggendo l’opera letteraria si possono esplorare.
In molte traiettorie del film si riconosce quanto De Sica fu
influenzato dal romanzo, negli aspetti più intrinsechi. A partire
dal senso di purezza, prima corrotta poi disintegrata, di una gio-
ventù che andava ad innamorarsi delle cose del mondo.
Il senso di cosa voglia dire davvero perdere i diritti civili e dover
trovare il modo di ricostruirsi una vita altrove. Il senso di quel
qualcosa di enorme, immondo, perverso già all’orizzonte e la
rappresentazione di quali personaggi siano stati capaci di
intuirne la portata catastrofica, e quali di percepirla come un
malanno d’anima, di psiche e di corpo.
Pensiamo alla straordinaria interpretazione di Lino Capolicchio
nei panni di Giorgio: nel film per ovvie ragioni non era possibile
inserire il pensiero letterario del ragazzo così presente nel libro,
le sue disquisizioni estetiche con Malnate. L’attore riesce comun-
que a far conoscere e percepire Giorgio come animale letterario
e filosofico, come un fiore che rimarrà per sempre nella sua bel-
lezza fra le pagine dei libri delle grandi biblioteche che ha fre-
quentato da studente.
Capolicchio ha saputo rappresentare la vergogna, la delica-
tezza, l’istintività, la naturalezza del suo amore giovanile pur
in un mondo pregno d’odio. È ancora sconvolgente la scena in
cui Giorgio spia Micól nella
hutte
dopo che ha amoreggiato
con Malnate e lei se ne accorge. Quella sequenza fu girata,
pensate, solo due volte e fu una di quelle di cui De Sica si con-
gratulò maggiormente con il giovane attore: il volto di
Capolicchio, in un’immagine di pochi minuti, vale un intero
saggio-racconto di psicologia sul desiderio amoroso, sul senso
di possesso, di perdizione.
Il giardino dei Finzi-Contini
è un film cruciale nella storia del
cinema italiano. Segna simbolicamente l’apice di una filmogra-
fia nazionale, a cui seguirà un lento declino, in termini di rap-
porto di un cinema che cerca l’affetto del pubblico. Verrà un
cinema che cerca il più possibile di destabilizzare lo spettatore,
come un nemico. Da
Zabriskie Point
(1970) di Antonioni, ai
film della
Trilogia della Vita
di Pasolini
,
a
La classe operaia va
in Paradiso
(1971) di Elio Petri, a
Ultimo tango a Parigi
(1972)
di Bernardo Bertolucci, a
Vogliamo i Colonnelli
(1973) di Mario
Monicelli, a
Prova d’Orchestra
(1976) di Federico Fellini il
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cinema italiano sembra sempre più cupo, più cinico, sempre più
coinvolto nel conflitto sociale dell’epoca, sempre più affranto
dalla strategia della tensione della quale l’inizio ufficiale (non
ufficiosa) è la strage di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969.
In questo contesto, il
Giardino dei Finzi-Contini
di De Sica
rimane assieme a
La lunga notte del ‘43
(1960) di Florestano
Vancini, una delle più importanti ed efficaci denunce cinemato-
grafiche della persecuzione razziale in Italia. un’Italia come
quella della Repubblica Sociale che sul finire del ‘43, pur sgan-
gherata e allo stremo delle forze, trovò la terribile volontà e
l’energia per consegnare i suoi cittadini di religione ebraica ai
tedeschi.
Intervista a Lino Capolicchio
(10/4/2012)
In occasione del quarantesimo anniversario del premio Oscar
come migliore film straniero del
Giardino dei Finzi-Contini
,
Anna Maria Quarzi ha intervistato Lino Capolicchio.
Conoscevi il libro di Bassani quando ti hanno proposto il film?
Mi interessa sapere cosa ne pensi del romanzo.
Sì, certo fin dall’estate del ‘62 quando lo lessi per la prima volta.
Non avrei mai immaginato, allora, che un giorno potessi inter-
pretare il ruolo del protagonista. Per me quello era un sogno.
Anche se qualche volta i sogni si avverano.
Ho adorato il romanzo di Bassani, il libro ha pagine di strug-
gente malinconia e bellezza ed è il racconto di una giovinezza
troppo presto perduta. Era facile per un giovane come me allora
identificarsi nel romanticismo “stendhaliano” del protagonista.
Naturalmente gli avvenimenti storici che fanno da cornice al
racconto, toglieranno a Giorgio tutte le illusioni, una per una.
Che segno ha lasciato Giorgio, personaggio dalle complesse
sfumature, nella tua vita di uomo e di attore?
Ho sempre pensato che ci sia qualcosa nel personaggio di
Giorgio che mi assomiglia molto, o forse Io assomiglio a Lui.
un eccesso di sensibilità, se vogliamo, una costante curiosità
intellettuale, un amore totale per la Poesia.
In genere appena finito di interpretare un ruolo, cerco di dimen-
ticarlo in fretta, per poter meglio entrare in un altro personaggio,
libero completamente da inutili pesi. Naturalmente, ci sono ruoli
o personaggi che resistono, non sono facili da allontanare, e ti
rimangono appiccicati addosso, come una sorta di peccato origi-
nale. Giorgio è sicuramente uno di questi.
Hai uno o più ricordi speciali della lavorazione del film?
De Sica sul set faceva qualsiasi ruolo, era di impressionante bravura.
un giorno, stava sdraiato sul letto e faceva vedere a lei, la Sandà, la
protagonista femminile del film, come doveva reagire alle mie effu-
sioni amorose. Quindi io dovevo abbracciarlo. E lui, era preoccu-
patissimo che non ci fossero fotografi nei paraggi che ci potessero
immortalare e magari qualcuno potesse equivocare.
In un’altra occasione mia madre venne a Ferrara a trovarmi.
Giunta sul set, volle andare da De Sica per chiedergli che cosa
ne pensasse di me. Io ero molto imbarazzato, perché mi sem-
brava una di quelle cose che succedono a scuola, quando la
madre va dal professore a chiedere notizie del figlio sull’anda-
mento scolastico. Ma lei, al mio tentativo di dissuaderla, non
volle sapere ragioni. De Sica l’accolse regale, e con molta sem-
plicità, disse: «Signora, suo figlio è un talento! un vero
talento!». Mia madre tornò e mentre orgogliosamente mi abbrac-
ciava, il suo viso rideva e piangeva contemporaneamente.
Hai conosciuto personalmente Bassani? Se sì dimmi le tue
impressioni.
Bassani è stato il mio professore di Storia del Teatro per tutto il
triennio all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio
D’Amico a Roma. Era un uomo di grandissima cultura e un
magnifico insegnante. Spaziava da un secolo all’altro con
esempi appropriati, citazioni pertinenti, analisi filosofiche, e voli
ed accensioni imprevedibili. I tragici greci ricoprivano per lui
un’importanza speciale, e aveva per loro predilezione assoluta.
Diceva: «il Teatro nasce tutto da qui». Eschilo, Sofocle ed
Euripide sono i tre grandi archetipi dell’esperienza umana.
Naturalmente era un professore severissimo, che metteva molta
soggezione ma che noi studenti ammiravamo totalmente.
Era molto felice che un suo allievo fosse stato scelto per inter-
pretare il ruolo di Giorgio. un giorno venne a trovarci sul set, a
Roma, e poi mi accompagnò a casa in macchina. Mi salutò con
un gran sorriso. Quel suo sorriso mi accompagna ancora, non
l’ho mai dimenticato.