Scheda: Luogo - Tipo: Edifici monumentali

Palazzo di Don Giulio d'Este

Uno scorcio del cortile interno

Posizionato all’interno dell’Addizione Erculea di Biagio Rossetti, l’edificio testimonia uno degli avvenimenti più torvi e violenti che hanno segnato Ferrara e la Corte Estense all’inizio del Cinquecento: la congiura di don Giulio d’Este. L’Ariosto dedicò ampio spazio nel Furioso al racconto di questo episodio.


CORSO ERCOLE I D' ESTE 16

Costruzione: 1496 - 1499

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  • La città di Ludovico Ariosto

Gli intrighi nella Ferrara di Ariosto: la congiura

Ludovico Ariosto era stipendiato alla corte di Alfonso I quando si trovò ad assistere tra il 1505 e il 1506, alle drammatiche vicende che stavano travagliando la corte estense e rischiavano di mettere in pericolo la pace e l’equilibrio della città di Ferrara.

L’episodio fu quello della congiura ai danni del cardinale Ippolito I d’Este scatenata dalla rivalità tra Don Giulio d’Este e il fratellastro, il Cardinale Ippolito. Don Giulio (1478-1561) figlio illegittimo di Ercole I d’Este e di Isabella degli Arduini, era stato riconosciuto da Ercole e accolto nella famiglia ducale. Era un giovane bellissimo e godereccio, senza alcuna ambizione politica, pago della cospicua rendita di cui l’aveva dotato, alla morte del padre Ercole, il fratello Alfonso I, e che gli permetteva di mantenere nel più sfrenato lusso il suo magnifico palazzo. L’equilibrio famigliare si ruppe a causa di rivalità amorose. In seguito a un agguato tesogli dal Cardinale Ippolito, geloso di Angela Borgia, la dama di corte di cui era invaghito senza successo, Don Giulio resta quasi accecato. Serbando un motivato sentimento di offesa non solo per il danno subito ma anche per l’atteggiamento passivo e quasi ostile che gli riservò il Duca, Don Giulio troverà l’appoggio di Don Ferrante, quest’ultimo “avido di onori e di dominio”, nell’ordire trame di vendetta. La congiura messa in atto nel 1506 per uccidere sia il cardinale Ippolito I che il duca Alfonso I fallì in maniera rovinosa e si concluse con la severa punizione di tutti i coinvolti. Giulio e Ferrante furono risparmiati dalla pena capitale, ma furono rinchiusi nelle prigioni del Castello: Ferrante vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1540, mentre on Giulio ottenne la scarcerazione solo nel 1559 grazie al nuovo Duca, Alfonso II. Al racconto della congiura Ariosto dedicherà una sua Egloga dove userà toni di severo rimprovero verso coloro che avevano rischiato di far precipitare Ferrara nel caos di una guerra civile.

 

Veduto avresti romper tregue e paci,
surger d’un foco un altro di quel diece,
anzi d’ogni scintilla mille faci.
Qual cosa non faria, qual già non fece
Un popular tumulto che si trove
Sciolto, ed a cui ciò che appetisce lece?
(Ecl. I, vv. 217-222)


Questa egloga fu definita da Giulio Bertoni, tra i maggiori studiosi dell’opera ariostesca, come un brutto atto di adulazione del Poeta verso Ippolito I, dove venivano appositamente giustificate le efferatezze verso don Giulio d’Este (Bertoni 1919, p. 43). Anni dopo, Riccardo Bacchelli rivedrà le considerazioni del Bertoni descrivendo il componimento ariostesco non come un esempio di poesia cortigiana, né tanto meno come un’invettiva o uno sfogo di indignazione, ma come un libello politico. Accanto all’amore e al rispetto verso un duca che tanto aveva fatto e continuava a fare per Ferrara, l’egloga esprimeva, di fatto, i pensieri di un vero teorico della ragion di stato: “poiché, uscendo con piena libertà logica dall’argomento, dinastico, giuridico e morale, presuppone l’esame della pubblica utilità, ammette l’ipotesi del fatto, e riprova i facinorosi puramente per ciò che sarebbe nato dal fatto loro: esiziale e distruttivo di fronte a un governo utile di fatto, come quello del duca” (Bacchelli 1931, p. 500). I versi utilizzati nell’Egloga si ritrovano anche nel III canto dell’Orlando furioso, dove però Ariosto userà toni più morbidi e indulgenti verso i congiurati, ritratti ora come vittime dei perfidi consigli di uomini rei piuttosto che individui animati da bieche intenzioni e crudeltà. Appaiono qui descritti nel vaticinio della maga Melissa a Bradamante:


Così con voluntà de la donzella
La dotta incantatrice il libro chiuse.
Tutti gli spirti allora nella cella
Spariro in fretta, ove eran l’ossa chiuse.
Qui Bradamante, poi che la favella
le fu concessa usar, la bocca schiuse,
e domandò: - Chi son li dua sì tristi,
che tra Ippolito e Alfonso abbiamo visti?

 

Veniano sospirando, e gli occhi bassi
Pareano tener d’ogni baldanza privi;
e gir lontan da loroio vedeai passi
dei frati sì, che ne pareano schivi. –
Parve ch’a tal domanda si cangiassi
La maga in viso, e fe’ degli occhi rivi,
e gridò: - Ah sfortunati, quanta pena
lungo istigar d’uomini rei vi mena!

 

Oh bona prole, o degna d’Ercol buono,
non vinca il lor fallir vostra bontade:
di vostro sangue i miseri pur sono:
qui ceda la iustizia alla pietade. –
Indi soggiunse con più basso suono:
- Di ciò dirti più innanzi non accade.
Statti col dolce in bocca, e non ti doglia
Ch’amareggiare al fin non te la voglia.
(Orl. fur. III, ott. LX-LXI)

Il palazzo

Inserito nell’imponente piano dell’Addizione voluta da Ercole I d’Este e disegnata da Biagio Rossetti, il palazzo fa parte di un grande complesso edilizio composto da quattro corpi di fabbrica, ovvero l’edificio che si allunga lungo corso Ercole I d’Este, due basse casette indipendenti seguenti il corpo principale lungo la stessa via, una palazzina antica che chiude il cortile d’onore e una casetta che congiunge il palazzo con via Borgo Leoni. Di grande interesse è il parco interno, esempio del tipico giardino ferrarese ma modellato secondo lo stile anglosassone, punto di connessione tra il giardino dell’adiacente palazzo Scola - Camerini e l’orto botanico.
“Le finestre binate, il mirabile cornicione, la porta marmorea con sovrastante balcone, l’arioso cortile razionalizzano il vernacolo ferrarese senza annientarlo. Il discorso rinascimentale adotta vocaboli noti all’artigianato locale precisandone la virtuale sintassi, ma senza rigorismi accademici. L’eleganza non comporta atteggiamenti altezzosi, la fabbrica gentilizia si nutre di ingredienti tratti dai dialetti, la fisionomia della Ferrara moderna non si distacca e non si oppone a quella del vecchio nucleo” (Zevi 1971, p. 203).
In un documento del tempo della camera ducale Girolamo Magnani, segretario di Alfonso, descrive così le molte ricchezze di cui era abbellito il palazzo all’epoca di Giulio II tra cui si legge di un variegato serraglio di animali, sui quali, ai tempi della Congiura, venivano provati vari tipi di veleni: “…Alfonso dux ferrariae […] havendo la Excellentia de lo illustrissimo Signore Duca olim nostro padre de bona memoria, lassato nel suo ultimo testamento iure legati allo illustro don Iulio da Este nostro fratello carissimo la casa, o sia palazo suoin lo quale lui habit, cupato murato, et solarato cum cortili, orti e stalle et cum ogni cosa che li specta et pertiene, et cum tutte le masseritie et osenigli che sono in epso, posto in Ferrara suso la via degli Angeli appresso ciascuno suo confine” (Franceschini 1997, doc. 760, pp. 617-618).

Successioni, restauri e ampliamenti

I numerosi lavori di restauro, soprattutto quello del 1932, hanno portato all’ampliamento del corpo di fabbrica e all’integrazione della corte interna dove è stato modificato il loggiato. È stata inoltre edificata una serra dove, tra i suoi elementi, si trovano le colonne appartenenti alla scomparsa delizia della Montagnola. L’ultimo restauro, destinato a rendere idoneo l’edificio al fine di ospitare gli alloggi prefettizi nel 1995, ha permesso di recuperare le sue particolarità architettoniche e di valorizzare un apparato decorativo che spazia stilisticamente dalla fine del XV secolo a oggi.

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Ente Responsabile

  • Assessorato alla Cultura e al Turismo, Comune di Ferrara

Autore

  • Stefania De Vincentis